mercoledì 30 novembre 2016

Un'abitazione parigina



“Questa casa ricoperta d'ardesia si trovava tra un viottolo e una stradina che portava al fiume. Aveva all'interno dei dislivelli che facevano inciampare. Una anticamera stretta separava la cucina dalla sala dove la signora Aubain se ne stava tutto il giorno, seduta accanto alla vetrata in una poltrona di paglia. Contro il muro bianco si allineavano otto sedie di mogano. Sotto un barometro, un vecchio pianoforte reggeva una piramide di scatole e cartelle. Due bergères ricamate a piccolo punto erano poste ai lati del caminetto di marmo giallo in stile Luigi Quindicesimo. La pendola nel mezzo rappresentava un tempio di Vesta, e tutto l'appartamento sapeva un po' di muffa perché il pavimento era più in basso del giardino”.
Gustave Flaubert, Un cuore semplice

martedì 29 novembre 2016

In mezzo a un fitto bosco



“In mezzo a un fitto bosco, un castello dava rifugio a quanti la notte aveva sorpreso in viaggio: cavalieri e dame, cortei reali e semplici viandanti. Passai per un ponte levatoio sconnesso, smontai di sella in una corte buia, stallieri silenziosi presero in consegna il mio cavallo. Ero senza fiato; le gambe mi reggevano appena: da quando ero entrato nel bosco tali erano state le prove che mi erano occorse, gli incontri, le apparizioni, i duelli, che non riuscivo a ridare un ordine né ai movimenti né ai pensieri. Salii una scalinata; mi trovai in una sala alta e spaziosa: molte persone - certamente anch'essi ospiti di passaggio, che m'avevano preceduto per le vie della foresta - sedevano a cena attorno a un desco illuminato da candelieri. Provai, al guardarmi intorno, una sensazione strana, o meglio: erano due sensazioni distinte, che si confondevano nella mia mente un po' fluttuante per la stanchezza e turbata”.
Italo Calvino, Il castello

venerdì 25 novembre 2016

L'estate in montagna



“Passavamo sempre l’estate in montagna. Prendevamo una casa in affitto, per tre mesi, da luglio a settembre. Di solito, eran case lontane dall’abitato; e mio padre e i miei fratelli andavano ogni giorno, col sacco da montagna  sulle spalle, a far la spesa in paese. Non c’era sorta di divertimenti o distrazioni.  Passavamo la serata in casa, attorno alla tavola, noi fratelli e mia madre. Quanto a mio padre, se ne stava a leggere nella parte opposta della casa; e, di tanto in tanto, s’affacciava alla stanza dove eravamo raccolti a chiacchierare e a giocare. S’affacciava sospettoso, accigliato; e si lamentava con mia madre della nostra serva Natalina, che gli aveva messo in disordine certi libri; - la tua cara Natalina – diceva. – Una demente – diceva, incurante del fatto che la Natalina, in cucina, potesse udirlo. D’altronde alla frase “quella demente della Natalina” la Natalina c’era abituata, e non se ne offendeva affatto”.
Natalia Ginzburg, Lessico famigliare


lunedì 21 novembre 2016

C'era solo la luce verde dell'acqua



“La casa sporgeva sulla parte più alta della stretta lingua di terra tra la baia e il mare aperto. Aveva resistito a tre uragani ed era una costruzione solida come una nave. L’ombreggiavano alte palme da cocco piegate dagli alisei, e uscendo di casa dal lato dell’oceano potevi scendere per la scogliera, traversare la striscia di rena bianca ed entrare nella Corrente del Golfo. A guardarla in una giornata senza vento l’acqua della Corrente era blu scuro. Ma quando t’immergevi, sopra quella rena bianca e farinosa c’era solo la luce verde dell’acqua, e di ogni pesce grosso si vedeva l’ombra molto tempo prima che quello potesse raggiungere la spiaggia. Era un bel posto sicuro per farci il bagno durante il giorno, ma non per nuotarci la notte”.
Ernest Hemingway, Isole nella corrente  

venerdì 18 novembre 2016

La quercia delle streghe



“Scrutò alcuni istanti quella quercia, che all’apparenza era una comunissima e banalissima pianta un po’ più vecchia del normale e che la tradizione favolistica riconduceva ai racconti inventati da Carlo Collodi. Ma la maestra sapeva bene che nella tradizione popolare quella quercia era chiamata anche la quercia delle streghe. Si narra che, nel medioevo, sui rami di quella quercia si riunissero tutte le streghe della zona, tutte le notti di luna piena. Lì le vecchie megere confabulavano e creavano incantesimi per seminare tra gli uomini paura e morte. I rami di questa quercia si estendevano in orizzontale e verso nord, anziché verso l’alto, perché le streghe vi si sedevano sopra per ore e ore schiacciandoli. Molti sostengono che di notte, quando la luna è piena, ancor’oggi si sentano provenire da quell’albero strani rumori simili a sussurri e risolini; qualcuno ha anche giurato di avere visto qualcuno seduto su quei rami. Ma tutte queste erano solo storie popolari, che i vecchi raccontavano ai più piccoli nelle fredde serate invernali, quando l’intera famiglia si riuniva intorno al fuoco per scaldarsi prima di coricarsi”.
Alessio Baù, La quercia, in Il canto della cicala


giovedì 17 novembre 2016

Le colline coperte di verde pallido



“Era una bellissima mattina primaverile, di domenica. Georg Bendemann, giovane commerciante, era seduto nella sua camera al primo piano di una delle case basse, dai muri sottili, che in lunga fila si susseguivano sulla riva del fiume, differendo l'una dall'altra quasi unicamente per l'altezza e la tinta. Aveva appena terminato di scrivere a un suo amico di gioventù che abitava all'estero: suggellò pian piano la lettera, attardandosi, e poi, appoggiati i gomiti alla scrivania, si mise a guardare il fiume, il ponte e le colline coperte di verde pallido che sorgevano sulla riva opposta. Ripensava ai casi di quell'amico: insoddisfatto dell'esistenza in patria, qualche anno prima si era rifugiato - è la  parola esatta - in Russia. Ora svolgeva un'attività in proprio a Pietroburgo, dapprincipio assai bene avviatasi, ma che da tempo sembrava stagnare: così almeno si lamentava l'amico, nelle sue sempre più rare visite. Sicché andava arrabattandosi senza risultato in terra straniera, e un esotico barbone celava malamente i tratti ben noti sin dall'infanzia, mentre il colorito giallognolo del viso pareva denunziare una malattia già in atto”.
Franz Kafka, La metamorfosi